Di nuovo, cerco un inizio. Un modo simile per raccontare un mondo diverso. Non lo trovo, mi perdo, non so. Eppure devo, perché tutto quello che è successo quella notte e nei giorni successivi mi lavora dentro da togliere il fiato – ho bisogno di renderlo parole e farlo nel modo giusto, perché sia mio ma condiviso, perché io possa spiegare a me stessa cosa fa di me una persona tanto diversa da due settimane fa. Perché io possa alleggerire un’intensità che col passare dei giorni diventa quasi sofferenza fisica: mi possiede, mi riempie, mi…
Quindici giorni fa sono nata per la terza volta.
Sono nata dalla paura – un terrore indefinito, pesante, che per tutto il tempo dell’attesa mi ha lavorato dentro.
Ho provato a conviverci, con la paura.
Ma ogni cosa che non quadrava, ogni cosa anche piccola, era una specie di segnale d’allarme – e il suo potere su di me aumentava.
18 maggio, il monitoraggio a termine.
Entrare in ospedale per me è come dover sostenere un esame – numeri, standard, medie – mi sento in ansia come se fosse in discussione la mia bravura, non il mio stato di salute.
E anche stavolta il verdetto è inappellabile: l’AFI è basso signora, beva tanto e torni domani.
Ecco.
Lo sapevo.
Mesi e mesi a prepararsi ad accogliere in casa il nuovo membro della famiglia e adesso mi tocca l’ospedale. Di nuovo.
Esco trascinando i piedi – sono sconfitta.
Chiamo B.
B. che ci ha accompagnati fin qui, B. con cui vorrei arrivare alla fine.
Se abbiamo scelto lei, è perché non è arrabbiata. Se per trent’anni aiuti le mamme a far nascere i loro figli, entrando e uscendo dagli ospedali, toccando con mano il significato dell’espressione “violenza ostetrica” e riesci a non essere arrabbiata, allora non mi arrabbierò nemmeno io, qualunque cosa accada – questo ho pensato il giorno che l’abbiamo incontrata.
E adesso ho proprio bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa che mi aiuti a non essere furibonda.
– Proviamo a smuovere qualcosa, proviamo con l’olio di ricino -, questo è quello che sento al telefono.
Subito, il mio cervello si mette in moto. Il mio cervello che è programmato per controllare tutto, raccoglier dati, elaborarli, trarre conclusioni. Il mio cervello attiva il segnale di pericolo, mi propina dubbi, obiezioni, mi dice che così, in fondo, non rispetto più il naturale andamento delle cose – come la volta scorsa, dice, come con Ettore – la testa mi sta per scoppiare.
Ma in modo del tutto imprevisto, stavolta succede una cosa.
Io scelgo LEI.
Decido di fidarmi.
Io, che non mi fido se non di me stessa – spengo il cervello, stavolta.
E decido di farlo così, lasciando a lei la responsabilità di sapere.
È qui, nel bel mezzo di questo lunedì pomeriggio, sotto il sole, che B. smette di essere un’ostetrica per diventare la MIA ostetrica.
E olio di ricino sia.
Ed eccomi qua, alle prese con la macchina del corpo che si mette in moto e che no, non so decifrare. Sono contrazioni? È mal di pancia? Sono forti? Sono io che non so sopportare il dolore?So che ho già partorito, quasi quattro anni fa. Eppure non so leggerli, i segnali del mio corpo. Nessuno mi ha insegnato ad ascoltarlo, quando è nato Ettore. Avevo mille persone intorno. Erano loro a dirmi tutto: se le contrazioni erano forti, come mi dovevo sdraiare, se mi potevo muovere, se dovevo andare in bagno, se potevo spingere.
Ora invece sono sola.
La casa è silenziosa.
Fuori è già buio.
Ettore dorme – Carlo guarda un film.
Potrei chiamare B., ma starà dormendo… e se la chiamassi per niente? Pensa che figuraccia, farla venire fin qua nel cuore della notte, per scoprire che ho solo mal di pancia. No no, resisto ancora un po’. Intanto avviso mia mamma, le dico che potrebbe essere che debba venire per stare con Ettore.
23.30
Tra un dolore e l’altro, sto carponi sul letto e dormo. Poi mi viene in mente che la cucina è un caos – mi alzo e scendo a sistemare. Quando inizia il dolore, penso a tutto quello che ho letto sul lasciarlo arrivare – respiro – mi concentro sul pensiero che prima o poi finisce – ecco, è andato.
00.30 – la cucina è a posto, la lavastoviglie è partita – adesso forse è meglio se la chiamo.
– Dormivi? – chissà perché è la prima cosa che mi viene da chiederle.
Mi scuso.
– Se continui così, tra un’ora richiamami che ci siamo.
E poi dice di cronometrare.
40 secondi, dice – quando durano 40 secondi chiamami.
Riaggancio.
Cronometro. 40 secondi netti. È che richiamarla così, subito, mi sembra proprio una cattiveria.
Così giro per casa – cammino e aspetto.
È saggio, il corpo. Insieme ad un dolore enorme, ci dà la capacità di sopportarlo.
Sono onde, le senti arrivare, si gonfiano sotto alle tue mani, scivolano via. E quando non ci sono più, non ne rimane traccia alcuna.
Respiro. E mentre respiro – stupore – sento che mio figlio si muove.
Avevo preparato la palla – anche la barra per appendermi. Ci sono cuscini, c’è la musica. E invece voglio solo camminare. Schizzo in piedi come un fulmine quando ne sento arrivare un’altra, prima che mi colga seduta o distesa, e misuro a passi veloci la cucina – avanti e indietro – non voglio essere toccata, non posso essere fermata.
Camminare – un passo dopo l’altro, una contrazione dopo l’altra, un pensiero dopo l’altro – non ricordavo facesse così male.
1.30 – si sveglia Ettore. E piange, a trovare il letto vuoto – mi chiama e piange.
– Mamma, fammi ciucciare.
No. Ti prego, no.
– Mamma per favore vorrei ciucciare.
E ciuccia, abbarbicato alla tetta – mentre il mio corpo si irrigidisce per farne passare un’altra e poi un’altra ancora.
Vorrebbe dormire, abbracciato alla mamma – ma so che se mi sdraio sono persa.
– Tesoro, scendiamo. Il bambino sta per nascere e la mamma non può stare stesa. Chiamiamo la nonna per farti compagnia.
Ed eccoci tutti in salotto, tutta la famiglia – Ettore ora completamente sveglio, Carlo che finalmente ha finito di allestire tutto e io con la mia smania di passi, che prego che mia madre arrivi presto. E arriva, alla fine – e silenziosamente la ringrazio, perché ho bisogno di gestire un figlio per volta, stanotte.
Potrebbe essere ora di chiamare B. – che faccio, la chiamo?! – no, aspetto ancora un pochino. Aspetto perché nella mia testa continuo a pensare che forse non è ancora ora, forse non è tutto così lineare, così interpretabile – forse sono solo io che non capisco, che non so, che…
Di nuovo silenzio, intorno.
Quando è nato Ettore non potevo gridare – non potevo piangere. Potevo solo stringere i denti.
Ora non importa. Ho un solo obiettivo: arrivare alla fine della prossima. E ci arrivo, calcando passi velocissimi, buttando fuori fiato e sillabe, tirando pugni sul muro – grugnendo qualche BASTA. Un piede avanti all’altro – e ancora – e ancora.
2.00 – basta, ora la chiamo. È come se una parte di me avesse paura di essere giudicata – non abbastanza forte, non abbastanza brava, non abbastanza resistente. Ancora una volta, non sono sicura – mi pare che siano forti, spiego – non so, cosa facciamo, dimmi tu.
– Mi preparo e vengo.
È decisa, lei. Tra me e me, e io penso forte, anche se in sussurri: grazie.
Inizio a non avere tregua – ad ogni contrazione sento premere più forte, verso il basso, così forte che mi toglie il fiato – provo a cambiare strategia ma come mi siedo sulla palla mi sembra di morire – cammina, Vale, cammina. Se mi fermo, è la fine.
Faccio pipì – grazie ai 3 litri di acqua bevuti in poche ore su consiglio del ginecologo, faccio pipì di continuo – e mi accorgo di perdere sangue.
Rosso, brillante – color panico.
Alla contrazione successiva, lo vedo colare, caldo, tra le gambe – ed è di nuovo paura.
– Carlo, chiamala, ti prego.
2.45, credo – eccola. È arrivata. È arrivata a dirmi che va tutto bene.
Sente il battito – quel brivido, ogni volta, finchè non riesco ad individuarlo – distinto, veloce.
– Il sangue va bene, vuol dire che la cervice si dilata. Aspettiamo che finisca la prossima, poi ti visito.
L’attesa di un altro numero – e l’unico pensiero è che di sicuro sarà un 3, un 4 al massimo – un numero che significa che la strada da fare è ancora molta – e io no, non posso resistere ancora per molto – sento che sto per cedere.
E invece no, che i centimetri sono 6, forse 7 – non posso avere una pausa vero? – no, da adesso in avanti sarà così, tu lascia andare.
E sì, da adesso in avanti si fa tutto più rapido, più confuso, più folle.
No, non riesco a controllare il dolore con la respirazione – lo sento e me lo becco tutto, come un tir che mi investe e mi investe di nuovo, ad intervalli regolari. Eppure ne riemergo tutta intera, senza lividi. Lucida quel tanto che basta a sentire che dentro di me anche mio figlio si muove. Siamo svegli entrambi, stanotte.
Parlo a vanvera. Vorrei solo dormire, sono stanca. Basta, basta. Guarda te l’olio di ricino. Dai scendi, forza che non ce la faccio più.
Sento una mano di B. sulla spalla. Ha un tocco leggero, come se non volesse disturbare. So che da qualche parte c’è anche A., come pure Carlo – ma non riesco a vederli. Non riesco a vedere niente e nessuno. Però quella mano mi racconta una cosa che avevo dimenticato.
Parto – partorire – partenza – inizio.
È uno spazio femminile.
È un segreto di donne, che si ripete diverso ma uguale da sempre. Donne che aiutano donne, in una dimensione di condivisione e silenzio che no, non ha nulla a che vedere con l’intimità della conoscenza – è un legame che deriva dall’essere parte dello stesso segreto, dall’essere custodi di qualcosa così enorme da trasformarsi in terrore – se non ci fosse questo filo che ci lega, tutte – questa forza bestiale e brutale che finché dura ci circonda di magia e mistero.
Questo ci rende sorelle.
È il momento di fermarsi. È il momento di scegliere un posto. Mi inginocchio davanti al divano. È buio.
Piango.
Piango senza lacrime. È un pianto lungo, una pausa, un respiro. Piango perché ci siamo quasi. Piango per far scendere la tensione. Piango per la stanchezza.
Piango perché è stato tutto mio, dall’inizio alla fine.
Ecco, la fine. La fine e l’inizio. Sono passate poche ore eppure sembra un secolo fa – le incertezze, i dubbi, le paure di ieri – non esiste più nulla se non il mio corpo che si inarca, qualcosa dentro che spinge.
Non sono io.
Io urlo, impreco, imploro, assecondo – ma la spinta viene da dentro. Sento le tre figure immobili dietro di me, spettatori silenziosi che allestiscono la scena. Sento mormorare qualcosa che non capisco. B. mi dice che non devo aver paura di spingere. Ma io non ho paura, non adesso. Io non devo spingere – io SONO spinta. Sono muscolo. Sono urla.
[Più tardi, quando verrà il sole, sarà mio figlio maggiore a trovare le parole migliori: mamma, ruggivi come una tigre!]
E alla fine è un bambino senza nome, lì, raggomitolato sul bianco del lenzuolo sotto alle mie ginocchia.
È un maschio.
È nudo, bagnato, piccolo.
Urla.
19 maggio – sono le 3.50, fuori è ancora buio – e io ce l’ho fatta.
Ce l’ho fatta a modo mio, vivendo tutto, scegliendo ogni minuto – ma non è stato come l’avevo immaginato.
È stato intenso, doloroso, violento, immenso.
È stato difficile, faticoso, lucidamente crudo.
È stato meraviglioso.
È stato non a modo mio, ma a modo nostro – mio e di quel bambino senza nome.
Accolto da mani ferme, da sguardi come carezze, da un sacro silenzio.
La terza volta che sono nata, sono nata dalla paura.
E so che non sarò mai più quella di prima.
Perché adesso so cosa sa fare il mio corpo – l’ho visto nella sua forza, nella sua vita.
IO SO PARTORIRE.
[A lungo, nei giorni dopo il parto, mi sono sentita in colpa con Ettore per avergli negato la stessa venuta al mondo. Mi ci è voluto un po’ per capire che è grazie a lui, a quello che di me stessa mi insegna ogni giorno, che Timoteo ha potuto nascere così.
Ugualmente, nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile con un compagno diverso da quello che ho accanto.
E posso solo essere eternamente grata alla vita per avermi fatto incontrare B., che con cura e delicatezza ci ha accompagnati, rimanendo sempre un passo indietro perché potessimo essere noi i protagonisti, eppure accompagnandoci con la forza della sua silenziosa presenza.]